Si chiude la settimana e inizia il weekend, ma oggi in Russia potrebbe chiudersi anche una partita politica iniziata il 21 febbraio, che vede opposti un gruppo punk femminile da un lato e l'instaurarsi di un regime semi-dittatoriale dall'altro.
Il processo alle Pussy Riot è un processo politico, più che amministrativo o penale: nessuno infatti crede all'accusa di "teppismo motivato dall'odio religioso" che le tre ragazze, Nadezhda Tolokonnikova, 23 anni, Maria Alekhina 24 anni, e Ekaterina Samutsevich, 29 anni, si sono viste appioppare dopo la manifestazione anti-Putin di fronte alla chiesa del Santo Salvatore a Mosca, nel febbraio scorso.
La magistratura moscovita dovrà quindi decidere se adeguarsi al potere dell'uomo forte, un'attrattiva sempre forte a quelle latitudini, oppure rivendicare il proprio spazio di manovra, la propria autonomia e indipendenza, che è alla base del gioco democratico.
E' quasi un "caso Matteotti" zarista, tanto per fare un paragone: Vladimir Putin infatti è al terzo mandato presidenziale, grazie al tandem inventato col vice Medvedev, e non ha alcuna intenzione di abbandonare il potere, anzi in questi ultimi anni la deriva populista e dittatoriale, che gode dell'appoggio della Chiesa ortodossa (vedi l'accusa a sfondo religioso) e dei gruppi industriali, si è fatta sempre più forte.
In una democrazia "all'occidentale" queste ragazze sarebbero state sanzionate, al massimo, con una sanzione amministrativa, magari accontentandosi di qualche riga tra le pagine di cronaca locale; a Mosca però la situazione è ben diversa: qualcuno ha pestato i piedi allo Zar, e la reazione non si è fatta attendere.
Resta da vedere come andrà a finire: appuntamento all'una, ora italiana, con il pronunciarsi definitivo della corte.
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